Narrasi del vezzo di antichi nobili etruschi, che al suono del flauto solevano ammirare i voli di tali frosoni.
Questi uccelletti, dal rosso pelo e composti da sottili e affilate righe sulle piume, attratti dal flusso di suoni, da essi si facevano cullare e dirigere nei loro istintivi mestieri.
Così, s’ì l’aria era leggiadra e melodica, usavano danzare nell’aere, volteggiando in circolo con maestosa armonia. Talvolta di Venere i riti compivano, ivi immersi in un sodalizio di voluttà.
S’ì invece di truci e guerriere onde il vento era pregno, ecco ch’essi con i grossi becchi si picchiettavano lordando il suolo di macule dello stesso colore del loro petto.
Sembrava che i frosoni di quell’epoca di vento si nutrivano, e che il verbo musicale fluisse nelle vene in vece del sangue.
L’unica sensata interpretazione è naturalistica: ogni vivente ha una comune inclinazione, uno scopo o un obiettivo. Per seguirne le trame occorre scoprirne il seme.
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